Ben tornato, Caio Metello
(di Roberta Conversi e Roberto Macellari)
Dopo un lungo pellegrinaggio, nel 2007 si è concluso il lungo esilio del cippo romano in calcare che commemora Caio Metello, figlio di Marco, una delle più antiche testimonianze di una presenza umana nel nostro territorio.
Era stato rinvenuto nel 1950 in corrispondenza di una porta della canonica di Sorbolo, dove era stato riutilizzato con funzione di soglia. Si trattava tuttavia di una riscoperta, perché, come vedremo, la sua presenza in paese è documentata almeno dalla prima metà del XVII secolo.
Il terremoto del luglio 1971, che aveva reso inagibili la chiesa e gli edifici canonici, dove il cippo si conservava, avevano indotto la Soprintendenza archeologica a ricoverarlo in luogo più sicuro, nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Parma. Restaurata la chiesa e ricostruita la canonica, le ragioni del suo “esilio” erano venute meno, ma le richieste di restituzione che negli anni la parrocchia non aveva mancato di rinnovare agli uffici competenti non avevano prodotto gli effetti sperati.
Soltanto di recente, riconosciute le ragioni della parrocchia, preso atto delle garanzie offerte in ordine alla tutela e alla valorizzazione del cippo, il soprintendente, dott. Luigi Malnati, e il direttore del Museo di Parma, dott. Maria Bernabò Brea, hanno voluto restituire alla nostra comunità un bene tanto prezioso. Prezioso, si badi, soprattutto per il suo valore storico.
Può darsi anzi che qualcuno rimanga deluso dal suo aspetto esteriore, tutt’altro che appariscente. La sua importanza ha meritato la collocazione all’interno della nostra chiesa, sulla parete di fondo della navata di destra, dove se ne può garantire, oltre alla protezione, anche la visibilità da parte di chiunque, bambini compresi. Potrà sembrare impropria la sua sistemazione nel nostro maggiore luogo di culto, trattandosi di un monumento funerario che rispecchia l’adesione alla religione pagana, ma, come vedremo, storia sacra e storia profana si intrecciano così strettamente da convincere, così almeno auspichiamo, anche i critici più severi.
Al buon esito dell’operazione ha dato il proprio contributo, oltre naturalmente ai parroci, un gruppo di parrocchiani animati dall’amore per la propria chiesa, a cominciare dall’ing. Claudio Bonfanti, cui si deve il progetto tecnico di allestimento. Si è anche reso necessario un intervento di restauro, affidato alle mani esperte di Giorgio Arcari e dei suoi soci, che già in passato si erano cimentati nei restauri della chiesa dopo il terremoto.
Vediamo allora di illustrare in sintesi l’importanza del cippo. Va infatti precisato che il nome di Sorbolo negli studi di antichità è conosciuto proprio grazie al cippo, perché dagli anni ’50 ad oggi alcuni fra i maggiori specialisti di epigrafia latina hanno voluto onorarlo di ricerche approfondite.
Il cippo romano di Caio Metello: veduta frontale e laterale.
Il cippo, dunque, che in occasione del suo riutilizzo aveva perduto la parte destra dell’iscrizione, commemora un cittadino romano, vissuto, si direbbe, fra il I e il II secolo d.C.. Essendo di condizione libera, viene identificato con il prenome (Caius), con il nome gentilizio o di famiglia (Metellus) e con il patronimico, cioè con il nome del padre (Marci filius). Quanto al nome gentilizio, Metellus, è interessante rilevare che è attestato nel vicino territorio di Brixellum, la Brescello romana.
Un primo problema riguarda l’interpretazione della parola Vitor, l’ultima del breve testo, in cui si discute se si debba riconoscere il cognome, cioè il terzo elemento dell’onomastica del cittadino romano, o piuttosto il riferimento all’attività professionale di Caio Metello, il panieraio o cestaio.
Di grande importanza è poi l’accenno alla tribù (una sorta di antica circoscrizione elettorale a cui Caio Metello era iscritto), la tribù Arnensis di Brescello e non la Pollia della maggior parte delle città emiliane, compresa Parma, nei cui confini amministrativi doveva rientrare anche il territorio di Sorbolo.
Eccoci dunque ad un secondo problema: il cippo si trovava originariamente oltre Enza, nel territorio di Brixellum, da cui sarebbe stato prelevato in età recente per ornare la chiesa di Sorbolo? O invece sin dall’antichità si trovava a Sorbolo, dove segnalava la tomba di un cittadino originario di Brescello? I sorbolesi, immaginiamo, propenderanno per questa soluzione, che dà nome ad uno dei più antichi loro progenitori. Se poi la sua attività fosse stata quella del cestaio, si aprirebbe un’interessante finestra sull’economia del nostro territorio in età romana.
Ma, come si è accennato, la storia del monumento non si esaurisce nell’evo antico, arrivando ad intersecarsi con la storia cristiana di Sorbolo. Rinvenuto forse nel XVII secolo, il cippo fu adattato a celebrare la memoria di un arciprete della nostra parrocchia, quell’Ulisse Baroni che morì di peste nel 1630. In quell’occasione fu probabilmente eliminata la cimasa del monumento antico, forse perché in essa era contenuta l’invocazione ai pagani dei Mani. Una nuova iscrizione fu aggiunta su uno degli spessori dell’antica pietra, senza toccare il testo sulla faccia principale in segno di rispetto per la sua antichità, per commemorare una nuova consacrazione della chiesa ad opera dell’arciprete Baroni.
La nuova collocazione, nei pressi della porta della sacrestia, ristabilisce una sorta di dialogo del cippo romano con la bella targa votiva iscritta, sottoposta anch’essa ad un accurato restauro, che si trova sull’abside della chiesa, proprio al di sopra della porta esterna della sacrestia. Vi sono raffigurati Maria e il Bambino assieme ai santi patroni, Faustino (in abito sacerdotale) e Giovita (con la veste diaconale), mentre una bella iscrizione latina ricorda l’arciprete Andrea Biggi, uno degli immediati successori di don Baroni.
Il cippo, dunque, ha accompagnato tutta la nostra storia, testimone di eventi, come le pestilenze e i terremoti che non hanno risparmiato la nostra comunità nel corso dei secoli, ma testimone anche dell’adesione dei nostri padri al messaggio di Cristo.